La "pancetta" peggiora l'epatite C
L'indice di adiposità viscerale si associa a un maggior carico virale, steatosi e infiammazione del fegato
MILANO - Che la "ciambella" di ciccia attorno alla pancia faccia male alla salute è noto: da tempo si sa che il rischio cardiovascolare, per esempio, è più alto in chi accumula il grasso proprio lì. OggiAggiungi un appuntamento per oggi si scopre che la "pancetta" è dannosa anche per chi ha l'epatite C: alcuni ricercatori dell'università di Palermo hanno messo a punto un nuovo indice per definire la quantità di grasso viscerale e hanno scoperto che i pazienti che ce l'hanno più elevato hanno un maggior carico virale (e quindi un'epatite "più attiva") e pure un maggior rischio di complicanze come la steatosi epatica e la necroinfiammazione del fegato.
STUDIO - La ricerca, pubblicata sulle pagine della rivista Hepatology, ha coinvolto 236 pazienti con epatite cronica da virus C di tipo uno, che rende conto di circa il 75 per cento delle epatiti C ed è anche il più complicato da trattare. Quando il responsabile dell'epatite C è il virus di tipo uno, spesso il paziente presenta steatosi (ovvero accumuli di grasso nelle cellule del fegato) e insulino-resistenza, entrambi fattori che a loro volta si associano a un'epatite più grave e più difficile da curare. I ricercatori palermitani hanno cercato di capire se l'indice di adiposità viscerale potesse essere un buon marcatore di queste disfunzioni metaboliche associate all'epatite C: si misura tenendo conto non sono dell'indice di massa corporea e della misura della circonferenza della vita, ma anche valutando trigliceridi e colesterolo HDL. L'indice di adiposità viscerale che deriva dalla stima di tutti questi elementi dà un'idea precisa dell'accumulo di grasso a livello dell'addome, ed è stato misurato in tutti i partecipanti allo studio; ognuno si è anche sottoposto a una biopsia del fegato.
GRASSO VISCERALE - I pazienti studiati a Palermo seguivano tutti la cura standard per l'epatite C, a base di interferone pegilato e ribavirina, ma solo il 47 per cento aveva ottenuto una risposta efficace; molti di loro erano sovrappeso o obesi e uno su quattro era iperteso; il 15 per cento aveva una vera e propria sindrome metabolica, il 42 per cento una resistenza all'insulina; in metà dei casi la biopsia ha rilevato una steatosi, che è risultata seria nel 17 per cento dei pazienti. Andando a confrontare questi dati con l'indice di adiposità viscerale ottenuto per ciascun partecipante allo studio, i ricercatori si sono accorti che una maggior quantità di grasso viscerale si associa invariabilmente a un maggior rischio di steatosi, fibrosi e di attività necro-infiammatoria a livello del fegato (in pratica, a un danno epatico più consistente); per di più, è legata a un maggior carico virale e quindi a una malattia più "aggressiva". «È la prima volta che l'adiposità viscerale risulta associata a una maggior infiammazione e danno epatico nei pazienti con epatite C - spiega Salvatore Petta, il gastroenterologo che ha coordinato lo studio assieme ad Antonio Craxì -. L'indice sembra in grado di riflettere la capacità del tessuto adiposo di produrre mediatori dell'infiammazione, che possono poi partecipare alla risposta infiammatoria del fegato in corso di epatite». Il tessuto adiposo di troppo, la "pancetta" insomma, potrebbe in pratica interferire con l'accumulo di grasso nel fegato, dando luogo a steatosi, ma anche promuovere la resistenza all'insulina e comportarsi come vero e proprio organo endocrino, modulando le funzioni metaboliche a livello epatico in senso negativo. L'indice di adiposità viscerale, secondo gli autori, può essere un buon marcatore del rischio cardiometabolico. «Inoltre - aggiunge Petta - potrebbe servire come indicatore del danno epatico correlato all'accumulo di grasso e per prevedere come progredirà la malattia epatica, oltre che come metodo per valutare se e quanto la terapia contro l'epatite C stia funzionando».
Fonte: corriere.it