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Steatosi epatica associata a disfunzione metabolica, effetti di canagliflozin in pazienti con diabete di tipo 2

È stato ipotizzato che gli inibitori del co-trasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT2-i) potrebbero essere una valida opzione per il trattamento della steatosi epatica associata a disfunzione

«Ad oggi» affermano Morena Pisarro insieme alla Commissione Lipidologia e Metabolismo AME (Associazione Medici Endocrinologi) coordinata da Anna Nelva «non esiste una terapia medica specifica per la steatosi epatica associata a disfunzione metabolica (MAFLD - Metabolic Associated Fatty Liver Disease), una condizione altamente prevalente nei soggetti con diabete di tipo 2 (DM2), che li espone ad aumentato rischio di progressione verso steato-epatite (NASH) e fibrosi di grado severo, fino alla cirrosi, ma anche ad aumento del rischio cardio-vascolare (CV) e renale (Park H, et al. J Intern Med 2019). È stato ipotizzato spiegano Pisarro e colleghi «che gli inibitori del co-trasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT2-i) potrebbero essere una valida opzione per il trattamento della MAFLD, in considerazione della loro azione sullo stress ossidativo, sull’infiammazione e sulla riduzione del contenuto epatico di grasso» (Akuta N, et al. Hepatol Res 2019; Raj H, et al. World J Diabetes 2019).

Di recente, segnalano gli specialisti, è stato pubblicato uno studio «con l’obiettivo di valutare gli effetti dell’SGLT2-i canagliflozin sugli esiti epatici in pazienti con DM2 ad alto rischio CV». Disegno: analisi secondaria post-hoc degli studi con canagliflozin (CANVAS e CANVAS-R) di esito CV e renale multicentrici, randomizzati, controllati, in doppio cieco (Neal B, et al. N Engl J Med 2017). I partecipanti erano» riportano Pisarro e colleghi «pazienti (maschi 64.2%) con DM 2 (durata media 13.5 anni, HbA1c ≥ 7% e ≤ 10.5%), con età ≥ 30 anni (media 62.5) e storia di malattia CV aterosclerotica sintomatica, oppure con età ≥ 50 anni e almeno due fattori di rischio per malattia CV, randomizzati a ricevere canagliflozin (n = 5787) o placebo (n = 4344) in monosomministrazione giornaliera, in aggiunta all’ abituale terapia anti-diabetica. End-point composito primario» proseguono, era «la percentuale di pazienti che raggiungevano una riduzione clinicamente significativa (> 30% dal basale) dei livelli di ALT o la loro normalizzazione (≤ 30 UI/L)» mentre gli «end-point secondari» erano i seguenti: «riduzione clinicamente significativa dei livelli di ALT, normalizzazione dell'ALT e percentuale di pazienti con progressione verso fibrosi grave o cirrosi (grado F3 o F4) secondo i seguenti sistemi di punteggio non invasivi: NAFLD Fibrosis Score (NFS), Fibrosis-4 (Fib-4), indice APRI (rapporto AST/piastrine) e Indice Fibrotico NASH (FNI). Inoltre» aggiungono gli esperti «è stata valutata la percentuale di pazienti con riduzione del peso corporeo > 5% o > 10%, la percentuale di pazienti che raggiungeva un controllo glicemico ottimale (HbA1c < 7.0%) e un buon controllo della pressione arteriosa (sistolica < 140 mm Hg, diastolica < 90 mm Hg)».

Questi i risultati principali. «Le informazioni sui parametri epatici erano disponibili per 10131 pazienti, 8967 dei quali (88.5%) presentavano MAFLD in accordo con l’Hepatic Steatosis Index (HSI)» riportano Pisarro e colleghi. «È stato riscontrato un grado avanzato di fibrosi (≥ F3) nel 14.1% dei partecipanti utilizzando l’NFS e nel 64.1% utilizzando il Fib-4. Secondo l’FNI, il 44.1% dei partecipanti aveva fibrosi di qualunque grado, mentre in accordo con l’APRI è stata sospettata una cirrosi nello 0.5% dei partecipanti». Circa gli end-point relativi all’ALT, «sono stati raggiunti in percentuale maggiore nei trattati con canagliflozin rispetto a quelli che avevano ricevuto placebo: a) end-point primario: 35.2% vs 26.4% (adjusted odds ratio – aOR – 1.51, IC 95% 1.38-1.64, p < 0.001); b) miglioramento ALT: 31.7% vs 22.3% (aOR 1.61, IC 95% 1.47-1.76, p < 0.001); c) normalizzazione ALT (escludendo dall’analisi i pazienti con ALT ≤ 30 IU/L al basale): 69.5% vs 57.7% (aOR 1.71, IC 95% 1.44-2.03, p <0.001)». Riguardo agli indici non invasivi di fibrosi, «il trattamento con canagliflozin è risultato associato a miglioramento/riduzione degli indici di fibrosi NFS, FNI e APRI, ma ciò non si è tradotto in una riduzione della percentuale di pazienti classificati con fibrosi avanzata. Non sono stati riscontrati cambiamenti significativi del Fib-4». In riferimento agli end-point secondari, proseguono gli specialisti, «a 6 anni dalla randomizzazione, nei partecipanti del gruppo canagliflozin rispetto al gruppo placebo sono stati ottenuti: a) riduzione del peso corporeo > 5% ma < 10% nel 38.8% vs 16.3% (aOR 3.24, IC 95% 2.94-3.58, p < 0.001) e > 10% nel 12.7% vs 4.1% (aOR 3.45, IC 95% 2.91-4.10, p < 0.001); b) controllo glicemico ottimale nel 34.0% vs 17.7% (aOR 2.51, IC 95% 2.27-2.78, p < 0.001); c) buon controllo pressorio nel 34.2% vs 24.6% (aOR 1.64, IC 95% 1.49-1.81, p < 0.001)».

Questo è il primo studio (e il più grande) che ha valutato gli effetti di un SGLT2-i sulla MAFLD nei pazienti con DM2 ad alto rischio CV, dimostrando che canagliflozin in aggiunta al trattamento anti-diabetico standard, rispetto al placebo, si associa al miglioramento rapido e duraturo dei parametri biochimici epato-correlati, osservano Pisarro e colleghi. «Questo risultato sembra indipendente dal miglioramento del controllo glicemico e del peso».

I limiti di questo studio, rilevano, «sono rappresentati dall’iniziale disegno di CANVAS e CANVAS-R per gli esiti CV e renale, dall’inclusione di soli pazienti diabetici, che quindi impedisce di stabilire l’eventuale risposta a canagliflozin in pazienti con MAFLD senza DM2, e dalla valutazione della fibrosi sulla base dei soli indici non invasivi. Per confermare questo risultato saranno necessari studi basati su biopsie epatiche».

Nonostante i limiti, commentano gli esperti, «sicuramente questo studio ha come punti di forza il disegno (RCT vs placebo), l’ampia numerosità del campione con pazienti ad alto rischio per MAFLD e una mediana di follow-up (> 2 anni) sufficiente per valutare cambiamenti su metabolismo e fibrosi».

In conclusione, affermano Pisarro e colleghi, «il possibile effetto benefico degli SGLT2-i sulla MAFLD si aggiunge ai già noti benefici di questa classe di farmaci sul controllo glicemico, sullo scompenso cardiaco e sulla malattia renale cronica. Nonostante servano ulteriori dati per confermare questi primi risultati, soprattutto nei pazienti non diabetici, sicuramente si tratta di un ottimo punto di partenza per prendere in considerazione gli SGLT2-i non soltanto per la riduzione della glicemia e la prevenzione cardio-renale, ma anche per migliorare il profilo metabolico a 360 gradi».

Fonte: doctor33.it

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